Una sessione particolare dei lavori di Tonalestate consente l’irrompere della vita com’è vissuta dai testimoni e dissipa la tossica mentalità dei pre-concetti e delle divisioni.
Soumaila Diawara è malese, lauree e dottorato, poeta e scrittore, perseguitato politico dopo che il suo paese è entrato nel disordine politico e sociale a seguito della guerra libica. Profugo, racconta la sua esperienza nei lager libici, il naufragio, i centri di accoglienza italiani e la faticosa ripresa. Ci rammenta che le guerre si combattono in Africa ma non è in Africa che si costruiscono le armi. Il peso del male non lo ha schiacciato e non ha permesso a sé stesso che la rabbia e l’odio gli impedissero di guardare l’altro come una persona che non si può annettere ma si deve ospitare. Con la poesia denuncia l’ingiustizia e continua la sua resistenza alle cause vere dell’emigrazione.
La sua storia è riconoscibile in una delle tante che racconta Pietro Bartolo,
lampedusano e medico. Alla sua testimonianza, che chiede la pietas dell’ascolto sincero, ci si può accostare solo con il silenzio. Troppe le giornate e le notti mischiato nelle stive buie e nei ponti delle barche dove si partorisce, si subiscono le più atroci violenze, si raccolgono nei sacchi i poveri resti che il mare restituisce; dove si curano le ferite fisiche e morali e perfino dove si può cogliere un barlume di luce negli occhi di un bimbo o di una donna tenacemente strappati alla morte.
Cosa ci impedisce di abbattere il muro della separazione e della paura per rimuovere le cause di tanto dolore?
Jean Tonglet, che è delegato del movimento ATD Quarto Mondo, è certo che non sono gli occasionali gesti di solidarietà davanti a una calamità a portare vero soccorso a chi vive la miseria come condizione di vita. La miseria non è una calamità naturale ma è ormai il quotidiano di gran parte degli uomini in ogni parte del mondo. Le guerre, la mancanza di aiuti strutturali della comunità internazionale, l’industria delle armi, alimentano la miseria. È urgente un impegno condiviso, che perduri a lungo, che possa togliere i più poveri dal tempo vuoto di ogni altro impegno che non sia quello delle necessità quotidiane. È un lavoro possibile se rischiamo l’incontro e la condivisione di
bisogni e risorse.
Ricorda la giornata del 6 Agosto 1945 Michiko Kono quando neonata viveva con i genitori a Hiroshima. Quella mattina, la famiglia aspettava un treno nel tentativo di allontanarsi dal luogo che il padre intuiva come troppo esposto. Alle 8h15 Hiroshima bruciò per l’esplosione e le radiazioni di “Little Boy”. La sua famiglia, i ragazzi sotto le loro scuole, le carni incandescenti e le lacrime secche di sangue dei fuggitivi poi l’infinita traccia di agonia dei sopravvissuti, la signora Kono li ha conosciuti dal racconto della madre e, dopo quarant’anni, dalla decisione di visitare il museo della pace di Hiroshima. Ci invita ad andare e vedere personalmente e impegnarsi immediatamente in ogni ambiente e contesto per farsi promotori di pace.