di Gian Guido Folloni

Le città sono le rughe delle civiltà (Italo Calvino)

Nel febbraio 2002 mi ero recato a Baghdad. Nell’aria già aleggiava la tensione per la guerra che sarebbe esplosa il mese successivo. La diplomazia internazionale spendeva le ultime, inutili carte per evitare un conflitto che gli Stati Uniti avevano ormai programmato e deciso.
Era venerdì, il giorno sacro dell’Islam. Nell’ora della preghiera del tramonto, il cortile della moschea era pieno all’inverosimile. In file ordinate, in ginocchio, il capo rivolto alla Mecca, i fedeli seguivano chi guidava le invocazioni.
Io, unico occidentale, ai loro occhi ero probabilmente il nemico. In piedi e in rispettoso silenzio accanto a loro, osservavo il movimento ritmico di migliaia di persone. Nel grande cortile, scandita dai gesti, la preghiera pareva a me un disciplinato esercizio di addestramento spirituale. Una sensazione di silenziosa attesa prevaleva sulle parole, lontane, del mullah.
Sono rimasto fino alla fine. Non ho parlato con nessuno e nessuno mi si è avvicinato. Al termine del rito siamo usciti insieme. 
L’autista mi aspettava poco distante. Si era fatto buio. Passavano auto bisognose d’officina. Anche le luci della città dimostravano gli effetti del lungo embargo. Tornai al “Rashid”, l’albergo dove alloggiavano i pochi occidentali. Entrando calpestai, come sempre, la faccia di Bush padre. Salii in camera e, munito di pazienza, chiesi la linea per chiamare l’Italia: a volte si aspettava per ore. 
Le città sono case e strade, automobili, monumenti, vecchie rovine, chiese e moschee, fiumi e ponti, bar e negozi, insegne e bandiere. Sono i francobolli di verde pubblico stretti tra il cemento. 
Più di ogni altra cosa, le città sono i suoi abitanti. Sono gli uomini e le donne, i giovani e gli anziani, le famiglie: l’umanità che il tempo e la storia hanno radunato e insediato in un luogo. Per questa ragione esse sono divenute vivaio di civiltà. Il susseguirsi delle generazioni ha scavato, costruito, distrutto. Ha pianto e gioito. Ha lavorato, combattuto. Questo secolare, umano brulichio è l’humus che feconda le città e da loro l’anima.
Non puoi “vedere” una città – se hai occhi per vedere – senza passare da chi la abita. Non puoi capire una città se non attraverso chi la fa esistere; se con lui non condividi una parola, uno sguardo, un gesto, un attimo del tuo tempo. 
Le città non sono da guardare, ma da incontrare. Sono tutte le storie del mondo. Stanno lì e attendono di essere ascoltate e capite. 
Ho visto i turisti a caccia di monumenti e musei. Leggono sulla guida la storia delle pietre. Si infilano gli auricolari e girano con il naso all’aria, indifferenti a chi sta loro attorno.
Non amo le guide, come non amo le agenzie di viaggio. 
Nella cattedrale di Nicosia era annunciato un matrimonio. Per visitare la chiesa ho atteso l’arrivo degli sposi, dei parenti e degli amici. Sono stato con loro durante la cerimonia nuziale tra ricami dorati, patriarchi, santi e scene bibliche dipinte che riempivano la volta e le pareti in una sintesi di storia sacra che si spandeva e proseguiva nel rito. Perché? Perché i canti, l’odore dell’incenso, i gesti liturgici non li trovi sulle pareti e nella guida turistica. 
Come le ferite, le rughe sono parte del cammino di umanizzazione dell’umano che si compie ogni giorno, in ogni luogo.

Baghdad

Dicono che nell’anno 1258, quando le truppe di Gengis Khan arrivarono a Baghdad al comando di Hulagu Khan, le acque del Tigri si tinsero di rosso e di nero. Il rosso del sangue e il nero dell’inchiostro dei libri. Hulagu fece trucidare la popolazione, gettare nel fiume l’immensa biblioteca dell’Università, e rubò l’orologio d’oro, di pietre preziose e lapislazzuli del suo cortile. Il sangue di professori e studenti dell’antichissima Al-Mustansiriyyah university finì in acqua insieme ai libri.
Tra le due Guerre del Golfo Saddam era al potere e l’embargo chiudeva l’Iraq al mondo esterno. Per arrivare nella capitale mesopotamica bisognava traversare il deserto siriaco. Con un’intera notte passata a  bordo di un gippone noleggiabile all’aeroporto di Amman, potevi essere a destinazione, stremato, all’ora di colazione.
La città era sporca. Circolavano per le strade automobili da rottamare, tenute in marcia a forza di rappezzi artigianali. Mancavano i ricambi d’ogni genere. All’hotel Al Rashid i rubinetti gocciolavano, le lenzuola erano lise come una garza. I condizionatori rumoreggiavano per garantire una temperatura tollerabile. Erano i prezzi che Baghdad pagava per l’invasione del Kuwait e per aver messo in mosaico sul pavimento dell’albergo più famoso la faccia ghignante di Bush padre, da calpestarsi entrando. C’era anche una scritta: “Bush is criminal”.
Era il 1996. In autarchia, il regime garantiva energia elettrica e carburante a prezzi irrisori, così favorendo il contrabbando di benzina e gasolio. La moneta valeva zero e il cambio col dollaro si contrattava al mercato nero. Telefonare, però era un’impresa. Dal centralino dell’hotel potevi attendere anche una giornata prima di avere la linea con l’Italia. Gli americani della delegazione Onu e il residente Eni, che alloggiavano nel mio stesso albergo, avevano il satellitare. Li guardavo con invidia.
L’embargo favorisce sempre il nazionalismo di facciata. Baghdad ne era ufficialmente intrisa. Come in tutti i regimi, come in tutti gli embarghi.
Ero uscito e giravo a piedi nella zona del mercato. Volevo vedere da vicino com’era la gente dopo i tanti anni d’isolamento. Trovai l’ambiente meno triste di quanto mi aspettassi. Le botteghe erano aperte. Ognuno si arrabattava. Gli artigiani, pur nella scarsità di materiali, erano al lavoro: stoffe e abiti, oggetti d’arredo. Entrai da un vecchietto arzillo che vendeva tappeti usati, presi da chissà dove. Stessa provenienza per orologi, penne e oggetti “quasi” antichi in rame argentato. 
Il mercato era ben fornito di cibi. Un carretto straripava di pesci del fiume. Poca carne, quasi solo pollame, poi datteri, spezie, pistacchi e verdura.
“Solo acqua in bottiglie sigillate e solo verdura bollita”, era la regola.
Non dovendo comprare nulla mi fermai solo a un carretto stracolmo di frutta: mele, banane, uva e altri frutti che faticai a identificare. L’uomo giovane, trent’anni forse, parlava bene l’inglese. Un ingegnere – scoprii al primo scambio di saluti – laureato da alcuni anni.
“Come mai vendi frutta”, gli chiesi.
“Lavoro per mio zio”.
“Un ingegnere che fa il fruttivendolo?”
Mi guardò con sorriso mesto che pareva voler dire: “Ma che domanda stai facendo, se sei qui sai bene qual è la nostra condizione”. Commentò: “Con l’embargo il lavoro non c’è”.
“Pensi che finirà l’embargo?”.
“Inshallah”
Nel 2003, quando arrivò la seconda guerra, l’attesa dell’ingegnere ancora durava.

Parigi 

In una viuzza del Quartiere Latino, proprio di fianco alla chiesa di Saint Severin, il locale era piccolo, buio e fumoso. In fondo, un grande schermo LCD rischiarava il bancone in pietra su cui il passare della spugna e dello straccio lasciava vaghi riflessi traslucidi. Contro la parete, uno scaffale era pieno delle bottiglie di superalcolici esotici. Appollaiato su di un alto sgabello, un avventore guardava le immagini in diretta dell’ormai quasi impossibile rincorsa di Fernando Alonso a Sebastian Vettel. 
Dietro il banco stava il gestore. Alle sue spalle spiccava un quadro in stile pop art del “Che” con il sigaro in bocca. Di fronte un altro quadro rappresentava un’allegoria, tra il politico e il turistico, dei Caraibi. La scritta “ Cuba” spiccava accanto a un accenno di lungomare, un taxi old styled, una scatola di Habanos e un barbudos che avrebbe potuto essere Fidel. 
Guardai oltre il banco e andai diritto verso lo schermo della tv. L’avventore si girò per un attimo. Aveva una faccia spigolosa. “Un algerino”, pensai. Non c’erano altri clienti e lui mi sorrise amichevolmente.
Gli chiesi della corsa che scorreva sullo schermo. Non era particolarmente informato e dovetti arrangiarmi con le immagini dalle quali si vedeva il ferrarista scatenato nell’ultima manciata di giri di pista dell’intera stagione di F1. Tutto bello, ma ben presto tutto inutile.
Guardai verso il gestore. Cercava di capire perché ero entrato. Chiesi una birra e sedetti anch’io al banco. 
“Lei è di Parigi?” buttai lì al compagno che mi sedeva accanto. 
“Sì, sono francese”.
Parlavo in inglese e quello rispondeva a tono: “Sei nato in Francia?”, insistetti.
“In Tunisia, però sono francese”, rimarcò lui. Francese. 
Ora il gestore si era fatto più vicino e gli dedicai tutta la mia attenzione. Feci i complimenti per il locale. Mi piacevano l’aria trasandata, il colore tra il vecchio e lo sporco, le bottiglie di Rhum, i quadri del “Che”, le travi di legno vecchio, il bancone in pietra: tutto quello che uno si aspetta in un bar dell’Avana. Mi gratificò di un cenno del capo. Cercavo di capire e gli chiesi dei quadri: perché “il Che”? perché Cuba?
Eluse la domanda indicandomi una persona che si era affacciata sulla porta. “Li dipinge lui. È mio fratello”. 
Il nuovo arrivato si diede l’aria del bohémienne. Mi passò per la mente che preparassero un siparietto nel tentativo di venderne uno. 
Tornai a guardare la corsa per un attimo. Alonso ci dava dentro ma Vettel non mollava. 
“Lei viene da Cuba?”, chiesi a bruciapelo. Ero stato troppo invadente. “Vengo dal centro America”, fu la non risposta. Se non sei cubano sarai di Haiti, del Mexico, del Venezuela. Perché non lo dici? Centroamerica, luogo vago. Francese anche lui, alla fine, ma dai natali imprecisati. Forse mi giudicava troppo indagatore. 
Poiché nel frattempo mi ero dichiarato italiano – ma forse lo aveva capito subito – girai l’angolo del discorso.
“Come si è trovato in Francia?”
“Bene…vivo qui da tanti anni; ormai è casa mia”.
La corsa era finita. La birra anche.
Il fratello sulla porta era uscito a fumare.
Tornai a volgermi al più gentile tunisino. Adesso era loquace. Parlammo delle rivolte nei paesi arabi, di Tripoli, del Cairo, di piazza Tahrir, e – perché no? – del suo Paese nativo. Di quel che era la Tunisia di Ben Alì, quando lui se ne andò. Della fragile nazione uscita dalla rivolta. Della crisi economica, delle famiglie che non han di che vivere. Del turismo scomparso. 
Si fece attento, informato, speranzoso e – mi confidò – “preoccupato”.
Potrei dire che fu uno scambio cordiale e sincero. Come tra amici. Al contrario del “cubano” (ormai per me potevo solo immaginarlo così) parlava senza reticenza alcuna. 
Rimasi una buona mezz’ora. Alla fine ci stringemmo la mano. Pagai la birra. Il fratello pittore aveva smesso di fumare ed era rientrato. Né con lui né con il gestore – complice l’alto bancone – ci fu stretta di mano.
Forse perché non avevo comprato un quadro?
Uscii. Sul lato della chiesa di San Severin il sacerdote in abiti liturgici salutava una coppia di novelli sposi e i pochi loro amici. Cadeva una leggera, impalpabile pioggerella. 
A Parigi piove sempre.

Estratto da G. G. Folloni, Cities. Ventidue racconti brevi.

Gian Guido Folloni, presidente Istituto Italiano per l’Asia e il Mediterraneo