di Eletta Paola Leoni, direttrice del Centro studi di Tonalestate
“Non ho scelto io di non essere felice, di essere infelice”
Del mondo d’oggi, di come sia crudele e disumano, di come sia pieno di aspettative di un illimitato progresso unite però all’angoscia di una sventura/catastrofe imminente, quasi fossimo tutti in costante attesa di una bomba che esploda a porre fine a una realtà che non mantiene mai le sue promesse, ne sentiamo parlare da tutti: dai filosofi, dagli scienziati, dagli intellettuali più colti ed eruditi come da coloro che, dopo una giornata di lavoro, fanno commenti nel forum delle loro reti sociali, o si ritrovano al bar o vanno in vacanza a discorrere coi loro vicini o preparano documentari e lezioni da mettere in comune sulle reti sociali, così che tutti possano sapere che cosa si dice in giro e su che cosa dialogare ma, soprattutto, come distrarsi da un tempo che, ormai svincolato dall’eternità, sa darci poco incanto e molto disincanto.
Come direbbe Verlaine, ciascuno di noi potrebbe riconoscere di essere “l’impero alla fine della decadenza”, dove “tutto è già stato bevuto, tutto è già stato mangiato, e non c’è più nulla da dire, se non scrivere una sciocca poesia da gettare nel fuoco”. È – lui dice – una poesia che risulta sciocca (etimologicamente: senza succo) perché, gravida ovviamente anche del peso di millenni di cattiveria e di male, cerca di allontanarci dal profondo segreto di noi stessi.
La ferita che sentiamo non è infatti la ferita del guerriero in battaglia; non è la ferita di un nemico che ci ha colpito alle spalle. È una ferita nascosta e senza nome, o forse potremmo dire che è una ferita che, dopo oltre due anni di pandemia, un nome ce l’ha ed è: “pigra paralisi”. È un’indolenza interiore che rende l’esistenza una ricerca costante di un faticoso, agognato ma impossibile riposo. E proprio “L’impossibile riposo” titolava, un quarant’anni fa, un suo significativo disegno Antonio De Petro, dove le cose primeggiavano nell’assenza dell’uomo, ma in attesa che l’uomo le tornasse ad abitare.
Che cosa ci permetterà (o ci permette) di non rendere ancor più dura la situazione in cui sentiamo di trovarci e dalla quale o fuggiamo nascondendoci timidamente, arrossendo a ogni sguardo che cerca di tirarci fuori dal nostro nascondiglio, o nella quale cerchiamo d’imporci con rabbia, o con sfacciataggine o con coraggiosa faccia tosta? Che cosa permetterà (e permette) alla nostra carne che sanguina a causa della crudeltà (dal greco cruor: pezzo di carne sanguinante) di millenni di storia, come analizzammo al Tonalestate di qualche anno fa, di essere curata, sanata, dopo essere stata colpita da un tipo di sventura di cui non sappiamo l’origine ma di cui vediamo gli effetti nel nostro quotidiano? Chi aiuterà la nostra persona a trasformarsi da un essere arrabbiato, o infastidito o frettolosamente pretenzioso – seppur talvolta nascosto sotto una timidezza che purtroppo dobbiamo definire insincera – a un essere morbido e docile, abitato da un silenzio che non grida “scandalo” ma che è positivo e grazioso (in grado di accogliere la grazia e di essere grato), cioè a far di noi una persona con la quale è bello convivere, con la quale è piacevole e privo d’inciampi condividere il cammino, benché pur sempre faticoso e mai privo di lotta, proprio dell’esistenza?
Non posso non ripetermi, quando mi pongo queste domande, quel passo bellissimo del Deuteronomio, in cui dice: “fuoco e calore benedite il Signore, gelo e freddo benedite il Signore, luce e tenebre benedite il Signore”, quindi: “cuore felice e cuore infelice, benedite il Signore” e la felicità assume un volto del tutto diverso da quello effimero che le hanno o le abbiamo dato. Quello del Deuteronomio è un invito che, dall’autore di questo stupendo inno, viene rivolto a tutti: agli angeli, agli animali addomesticati come alle bestie selvatiche, alla natura quando è quieta e quando è dirompente, che viene rivolto al popolo e alle sue guide, ai suoi sacerdoti e ai suoi santi, e a ognuna delle anime dei giusti e degli ingiusti che ancora vivono nell’esistente, un inno e in invito che è come una goccia di rugiada per gli umili e i poveri che conoscono la pietà.
Chi dunque ci insegnerà l’atto di benedire?
Se ci preoccupassimo di incontrare chi ci insegna questo invece di preoccuparci delle migliaia di false aspettative che la mentalità d’oggi ci impone, quale profonda rivoluzione si attuerebbe nel nostro quotidiano e, secondo la logica del “se cambio io cambia tutto il mondo” – il che è una verità logicissima e indiscutibile – , sicuramente crollerebbe quell’impero che oggi ci ha resi appunto tutti abbastanza schiavi e abbastanza frivoli, tanto da credere che basti lasciar esplodere la nostra rabbia e tutto si trasformerà in meglio. Il che non è vero. Infatti, dicevano alcuni antichi saggi che “l’azione nata dalla rabbia è destinata a fallire”. È affascinante questa frase perché nasconde, pur sotto un’indubbia saggezza, il crudele calcolo a tavolino che è proprio di tutti i conquistatori. E lo sappiamo tutti che – benché sia ingiustificabile – non si può conquistare senza ferire, senza espropriare un altro di qualcosa: vale nell’amore umano, immaginiamoci nella guerra disumana!
L’arte di conquistare richiede un dominio di sé che in realtà è poi diventare schiavi – e questo col tempo facilmente diventa ossessione – della propria passione di conquista. E, oltre alla parola conquista, è anche con la parola crudeltà o cattiveria – personale e storica – che dobbiamo fare i conti se vogliamo sviscerare la parola gratuità sulla quale il Tonalestate ci invita oggi a riflettere.
Vogliamo infatti cercare un tipo di gratuità che non sia l’altra faccia della moneta del conquistare o della cattiveria; cerchiamo una gratuità che sia moneta d’altro tipo, terra d’altro orizzonte.
La curiosità di incontrare, di conoscere e vivere questa gratuità sconosciuta ci tormenta e nello stesso tempo il solo fatto di cercarla e di sapere che forse davvero esiste ci rinfresca il cuore, e intuiamo che potrà darci vero riposo, perché solo un tipo di “gratis” che sconfigga l’ansia di conquista e la cattiveria che sono in noi e che ci faccia passare al terreno, o se preferite, al bel paradiso dell’arte di amare, senza farci sostare nella pigra paralisi dell’indolenza, può motivare la nostra ricerca e la nostra fatica.
Non sapendo bene, però, come usare la parola gratuità, soprattutto gli intellettuali preferiscono usare la parola “pietas”, stravolgendola comunque dal suo significato originario: la pietas era, al tempo dei romani, una dea che abitava l’uomo pio, cioè colui che è “fedele agli dei e ai riti da loro richiesti”, infondendogli la disposizione ad accettare il sacrificio di sé, fino a dare la vita per la propria patria e per la propria famiglia o clan o tribù. La pietas era quindi molto lontana dall’universalità di cui la parola gratuità sembra invece essere impregnata, ed essa ci affascina proprio perché intuiamo il suo effetto dominò sulla storia.
In ogni caso, tralasciando la pietas, quattro parole vengono di solito collegate alla gratuità: filantropia, benevolenza, solidarietà, compassione. E, molto analizzato da tutti, in relazione con la gratuità, è il tema della ricchezza e del suo uso.
La parola compassione è molto complessa e oggi un po’ svigorita. Limitiamoci a due voci: Schopenhauer parla di compassione nel senso di “soffrire insieme”. E sempre ricordava (e la recitava ogni sera) la preghiera con cui si concludevano le opere di teatro negli antichi teatri indiani: “Possano tutti gli esseri viventi restare liberi dal dolore”. Per Nietzsche, limitiamoci a dire che la compassione è l’esercizio di pienezza del potere che straripa sui sottomessi e gli schiavi, i quali vivono di rinuncia.
Se velocemente analizziamo le altre due parole legate alla gratuità, possiamo incontrare definizioni astratte, come quella che, con Cicerone, davano i latini che dicevano che “la benevolenza è messa in moto da una volontà che vuole il bene” o quella che davano i greci, nell’accademia platonica, che dicevano che la benevolenza è “uno stato di buone abitudini/abiti derivati dall’amore all’umanità”. Più astratto di così, impossibile!
O incontriamo “buone o cattive intenzioni” – dipendendo dal criterio che usiamo come metro di giudizio – quali quelle di Giuliano l’Apostata, l’inventore della parola filantropia: quello che lui fece, nel suo intento di ripristinare il paganesimo, fu imitare le istituzioni fondate dai cristiani e dalle dottrine del cristianesimo, togliendo loro il cristianesimo e rendendole “imperiali”. E a lui si rifecero poi i filantropi dell’illuminismo. Con questo vero e proprio metodo di governo si conseguiva di fatto una pluralità di obiettivi: si dimostrava di essere in una posizione privilegiata; si potevano ottenere fama (oggi, diremmo voti) tra il popolo, e si giustificava la propria ricchezza non come accumulazione ma come conferma di una propria superiorità (uno “status”) rispetto agli altri.
Questo principio vale tutt’oggi. Vorrei leggervi un pezzetto di un libro di María Luisa Lara, dal titolo Filantropía empresarial, pubblicato in Messico una ventina di anni fa; lei dice (la traduzione è mia ed estemporanea): “Chi cerca di sapere un po’ di storia della filantropia nelle sue origini non trova dati; praticamente non ci sono notizie certe. In Cina, le dottrine di Confucio e Mencio hanno dato importanza alla benevolenza e per questo legiferarono che scopo dello Stato è garantire il benessere del genere umano: ma non l’hanno poi messo in pratica. In Grecia, la filantropia era del tutto irrilevante e a Roma ancora meno, sebbene durante l’urbanizzazione dell’Impero Romano le autorità stabilirono funzioni destinate ad aiutare i poveri e i malati.
Lo spirito di benevolenza si esprime nel cristianesimo, soprattutto nel Medioevo, in Europa, aprendo ospedali, orfanatrofi e case di accoglienza, finanziate dalla Chiesa e da alcuni ricchi dell’epoca.
La filantropia ha creato nel tempo molte controversie, perché governanti e aristocratici hanno voluto nascondere, dietro opere falsamente filantropiche, la loro corruzione e avidità.
Negli Stati Uniti, ha preso molto piede la filantropia operata dai cittadini: la società civile ha visto la necessità di unirsi per far fronte alle gravi esigenze di alcuni settori della popolazione. Poi, nel tempo, la filantropia statunitense si è professionalizzata. Negli ultimi anni si è assistito al fenomeno di donanti non più individuali ma corporativi”.
La parola gratuità, come vediamo da questa citazione, è ancora in balia di definizioni che coincidono con l’idea che abbiamo del ricco che soccorre il povero: e sappiamo che adesso l’aiuto al povero lo si dà preferibilmente non attraverso canali ufficiali, ma attraverso il cosiddetto Blockchain, cioè l’uso di crypto strumenti di raccolta di aiuti benefici che sembrano più sicuri e fruttuosi dei sistemi di aiuto che provengono dai canali istituzionali quali i finanziamenti governativi o dalle più tradizionali società benefiche. È un fenomeno interessante, per lo meno da tenere sott’occhio per vedere se anche qui c’è ansia di conquista o vera gratuità.
Considero che, in questo mare ancora confuso in cui nuotano filantropia, benevolenza, compassione e solidarietà, la definizione di gratuità che potremmo tenere come guida sia quella che cercavo di spiegare all’inizio, cioè “l’arte di benedire”, che è appunto agli antipodi dell’arte di conquistare e dell’avere la meglio sull’altro: benedizione e conquista sono due terre che non hanno alcun confine in comune e sono due “anime” incompatibili tra loro. Mi sembra che questa definizione “gratuità come arte di benedire” liberi la gratuità da quel sentore di bontà in fondo non pura, la liberi da quell’idea di cortesia diplomatica, o di gettare dall’alto verso il basso, per trapassarla invece fino a carpirne il suo punto più segreto e nascosto.
La gratuità ha caratteristiche, a mio parere, inconfondibili: è paziente, è benevola, non invidia, non si vanta, non s’inasprisce né addebita il male, soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa. E ha in sé una capacità travolgente di trasformare positivamente il mondo, ma lo fa con la paziente umiltà di un passo alla volta, così che non sia mai gravoso averla per compagno di cammino.
La sola parola gratuità/amore gratuito trova una corrispondenza con ciò che il fondo di noi, nascosto sotto le pesanti macerie del male e della confusione, desidera: ci dà respiro e ci fa passare dall’essere il perno del nostro solipsismo a essere i protagonisti, umili e attivi, nel costruire una comunità ovunque siamo. Senza amici, questo è impossibile, ma la gratuità educa l’amicizia stessa, così che in essa, come scrisse Gibran in una sua poesia, “non vi sia altro scopo che l’approfondimento dello spirito”: solo così, l’amicizia si trasforma in Amicizia con la a maiuscola, e permette non solo che emerga la nostra vera identità/natura ma che anche possiamo riconoscere la realtà secondo il suo vero volto.
E, certo, dovremo studiare e probabilmente riscrivere tutta la storia secondo la logica della benedizione. E per farlo, ci vorrebbe un seminario di almeno un anno. Ma possiamo dare uno spunto d’inizio a questo studio e ricerca: perché e quando posso benedire? Lo posso fare perché (e solo quando) riconosco al fondo di me un dono che chiede di essere condiviso. “Potremo mai sapere di che cosa è fatto il dono generoso di un gesto, di una parola? Quello che so è che si può essere salvati da questo dono” disse Nathalie Léger al Festival della Letteratura di Roma dell’anno scorso.
Spero sia sufficiente questa brevissima introduzione al tema, come linea guida con cui ascoltare le testimonianze, gli studi, le esperienze, i dialoghi sulla gratuità che incontreremo e a cui parteciperemo, con le nostre domande e le nostre riflessioni, in questi tre giorni del Tonalestate. Solo vi suggerisco, quando e se potete, di leggere o meglio studiare il librettino di Pär Lagerkvist dal titolo “La mia parola è no”. In un dibattito per lo meno ideale con il vitalismo allora dominante, Lagerkvist, in questo libretto breve e molto denso, ci dà la possibilità di fare un punto e capo e ripartire a fare una filosofia utile all’uomo. Cito solo una frase che credo possa aiutarci a ripartire nella riflessione sul nostro tempo. Lui dice: “Abbiamo smesso di chiedere il pane, perché ci sono state date pietre. Troviamo un’infinità di cose – così tante che sono povere – ma la pace è l’unica che varrebbe la pena trovare”.