di Emilio Pasquini

Posto di fronte all’editoriale che presenta il progetto del convegno informatico “Tonale estate 2020”, molte sarebbero le tentazioni per uno storico della letteratura come il sottoscritto, indotto a spaziare da Bonvesin da la Riva del De magnalibus urbis Mediolani all’Italo Calvino delle Città invisibili. Ma ancor più stimolante riesce, a chi scrive,  l’opposizione fra il città tràdita, legata cioè ai valori positivi della tradizione e la città tradìta, che a questi stessi è venuta meno: un antinomia che gli consente, si spera,  un utile approfondimento sul suo Dante.
Non c’è dubbio sul fatto che l’Alighieri ponga il suo ideale di città dal volto umano nel passato e ad essa contrapponga costantemente la città del presente, profondamente corrotta per la perdita di certi ideali di vita. Il suo è un percorso che inizia nel colloquio col primo fiorentino che egli incontra nell’oltretomba, nel VI canto dell’Inferno, il goloso Ciacco, il quale non solo pronuncia un feroce giudizio sulla loro città («piena / d’invidia, sì che già trabocca il sacco»), ma al triplice quesito di Dante, consapevole di essere vittima di lotte di parte,  risponde profetizzando la vittoria dei Guelfi Neri entro tre anni, precisando che sopravvivono solo due uomini giusti e che la ragione di tante discordie risiede nel prevalere di tre vizi fondamentali, la superbia, l’invidia e l’avidità. Solo a quel punto Dante è indotto a chiedergli notizie sulla sorte eterna dei grandi fiorentini del passato, Farinata degli Uberti e Tegghiaio Aldobrandi, Iacopo Rusticucci e Mosca de’ Lamberti: quasi che il meglio di Firenze debba ricercarsi fra i morti dell’aldilà. 
Non a caso il colloquio che egli ha con Farinata, nel canto X, si sviluppa nel segno di un rispetto reciproco fra avversari politici, legati da un comune amore per Firenze, che va ben al di là del trauma di Montaperti, la battaglia  del 1260, che decise, con la sconfitta dei Ghibellini, il prevalere definitivo dei Guelfi: che non significò la fine delle discordie cittadini, se è vero che proprio qui, per la seconda volta, si profetizza l’esilio di Dante, Guelfo bianco ad opera dei Neri. Ma è soprattutto nel XV canto, con al centro la figura del maestro di Dante, Brunetto Latini, vero campione della città tràdita col suo appello alla  fiducia nelle virtù più nobili in preparazione della gloria anche dopo la morte («m’insegnavate come l’uom s’eterna»), che esplode l’immagine della Firenze corrotta, per il prevalere dei discendenti dei Fiesolano, i resti dell’esercito di Catilina, «gente avara, invidiosa e superba», sugli eredi dei Romani, «la sementa santa» cui appartiene lo stesso Dante, fatalmente costretto all’esilio da questa stirpe corrotta. 
Tale irriducibile contrapposizione culmina, come tutti sanno, nel Paradiso, entro la terna di canti  (XV-XVII)  in cui si svolge il colloquio col trisavolo Cacciaguida nel cielo di Marte. Esemplare e indimenticabile la rievocazione della «Fiorenza dentro da la cerchia antica» (XV 97 ss.), definita «sobria e pudica» alla luce delle sue specifiche qualità espresse in successive terzine: gli abiti e gli ornamenti erano modesti e senza fronzoli inutili (vv. 100-102); la dote delle figlie non era sproporzionata e tale da incutere paura nei padri, intimoriti anche da nozze troppo precoci (vv. 103-105); si facevano molti figli, in famiglie numerose, perché il sesso era prevalentemente rivolto alla procreazione e non alla pura seduzione (vv. 106-108); Firenze non entrava in gara, velleitariamente,  con città si maggior potenza, come Roma (vv. 109-111); illustri e ricchi cittadini , mariti e mogli, si esibivano con abiti semplici, senza concessioni al lusso (vv. 112-117); la società non era ancora dominata da frenesie di guadagno e le famiglie restavano unite, coi mariti ben presenti, non attirati da commerci oltralpe; le mamme curavano amorosamente i loro bambini oppure si dedicavano alla filatura raccontando le storie e le leggende su Troia, i Romani e le origini di Firenze. Insomma, una classe dirigente che si ispirava piuttosto ai modelli gloriosi di Cincinnato e della madre dei Gracchi, Cornelia, che agli attuali esponenti della classe politica.
Di contro a tale quadro senza ombre, il canto successivo, XVI, mette sulla bocca di Cacciaguida un violento e totale atto d’accusa contro Firenze, descritta con tinte drammatiche sullo sfondo della virtuosa città dove nasce nel 1091 il trisavolo, vissuto nel XII secolo, a oltre cento anni di distanza dal suo lontano discendente. Ed ecco, di contro alla purezza dei Fiorentini originari, una cittadinanza contaminata da  gente scesa dal contado, un’irruzione di villani inurbati, col loro fetore morale e la volgarità dei nuovi arricchiti. Responsabile di tutto questo è la Curia papale, con la sua politica spregiudicata a favore delle ricche famiglie guelfe del contado, che meglio sarebbe stato non si fossero mai trasferite fra le mura cittadine.
Nella prospettiva dantesca, insomma, è proprio la mescolanza delle stirpi a produrre il male delle città, simile al cibo che si ingerisce sopra altro cibo non ancora digerito; il che equivale a dire che, quando domina la cecità politica, i rischi di un sovvertimento sociale sono maggiori in una città grande che in una piccola. E qui si innesta il grande tema della morte progressiva delle cose umane, che sfocia nel topos millenario dell’ubi sunt? (dove sono fini certe famose citta del passato?).    In conclusione ci troviamo, con Dante, in una posizione opposta a quella che sarà percepibile in Leopardi, di cui ho avuto occasione di parlare e nel  saggio Per gli Italiani: attualità della diagnosi di Giacomo Leopardi, uscito sulla rivista “Paradoxa”, XI, 2 (aprile-giugno 2020, pp. 108-117). Nella sostanza il poeta di Recanati stigmatizza la persistenza di vizi ancestrali nelle nostre città, dominate dall’egoismo privato e dall’ignoranza del pubblico, ingaglioffate nella chiacchiera sterile e in nel passeggio, ossia in quella che oggi chiamiamo con temine spagnolo, la movida. Di contro, la modernità di certi paesi europei, il loro rispetto per il pubblico, la tendenza al dibattito culturale piuttosto che al vaniloquio, già in potenza l’’adesione intelligente agli impulsi di una società globalizzata.  In conclusione, condanna del passato e speranze tutte affidate a un presente proiettato verso il futuro. Il problema vero, io credo è il saper conciliare i valori perenni del passato con le conquiste del pensiero moderno, per una città virtuosa ma ricca di fermenti nuovi, lontana da ogni egoismo consumisrico e mercantile.