di Carmelo Dotolo

  1. L’ambivalenza dello spazio urbano

Ad un primo livello della riflessione, è importante sostare sul ruolo della città nell’organizzazione dei vissuti personali e comunitari. A partire da una consapevolezza: che la città è simbolo-segno della condizione umana contemporanea, della fatica di individuare una mappa di principi e valori che mettano al centro l’umano nella sua bellezze e fragilità. Si è in presenza di una ambivalenza nella interpretazione della sfera della vita urbana, col suo fascino e i suoi rischi. 
Fascino, perché esprime il movimento della vita, la ricerca di identità, il percorso di una realizzazione personale che è alla base del desiderio di ricercare, viaggiare, individuare forme lavorative agili, godere della bellezza della libertà di agire. Rischi, perché la struttura della città e degli spazi urbani si sta rivelando un boomerang per la qualità della vita e per il ben-essere delle persone.
Con una metafora attinta dall’antropologo francese Marc Augé, le città stanno diventando sempre più ‘non-luoghi’. Vale a dire: habitat in cui sembra difficile dare forma ad uno stile di vita che sia attento alle persone nella complessità dei rapporti, dei valori, delle scelte. A eccezion fatta di quanti dichiarano che i modelli della mobilità, del flusso continuo, del tempo senza limiti, della molteplicità degli incontri sono tutt’altro che un handicap per immergersi nel movimento delle identità e delle possibilità. Eppure, la drammatica esperienza della pandemia del Covid-19 ha svelato certe fragilità proprio in ordine all’architettura simbolica e sociale delle città. Come non ritenere un deficit all’importanza del Welfare quelle scelte che hanno impoverito il territorio attraverso una logica economico-finanziaria aziendalistica della sanità, dell’istruzione, della cultura? Non è sotteso un modello interpretativo che riproduce le leggi del mercato per organizzare lo spazio urbano, l’attenzione all’ambiente, la privatizzazione crescente dei beni comuni? Sempre più spesso lo scenario delle città è caratterizzato da un desiderio di gratificazione immediata che porta a contesti umani chiusi (gated communities), a soluzioni abitative sempre meno attente alla dimensione comunitaria del vivere, alla creazione di spazi che nell’ottica di un miglioramento creano ulteriori separazioni (gentrification). Dunque, è necessario un’attenzione critica che possa valorizzare la città, soprattutto chiedendosi quale tipo di città si vuole ripensare.

2. Tra nuovo individualismo e cultura neoliberista

Un secondo passaggio appare, però, utile. Senza indulgere in letture esageratamente critiche, è difficile sottrarsi a quella civiltà del disagio che secondo molti analisti culturali caratterizza la vita delle città (e non solo). In particolare, ne sottolineo due: a) una nuova forma di individualismo; b) un impoverimento dell’umano.
All’interno della realtà socio-culturale si fa strada l’affermazione di un nuovo individualismo, in cui il soggetto pone sé stesso quale attore unico e sovrano di ciò che riguarda diritti, scelte, visioni del mondo. La fisionomia del nuovo individualismo, sollecitato anche dalla cultura del Web, si presenta in tal modo. Un primo aspetto riguarda l’indebolimento degli stili tradizionali di vita che lasciano trapelare il carattere sperimentale dell’esistenza, forse la sua leggerezza desiderata, ma dispendiosa per i ritmi del vivere privato e sociale. Il secondo modo segnala la contrazione e il riflusso dei rapporti comunitari. A farne la spesa sono i legami interpersonali e intergenerazionali che sovente vengono contagiati dai modelli dell’imprenditorialità. Il terzo cambiamento afferisce alla distanza sociale sempre più marcata da criteri economici, dove il crescere delle disuguaglianze è direttamente proporzionale all’aumento di disturbi psico-sociali (depressione, obesità, schock postraumatici, ecc.) che contribuiscono a isolamenti coatti per i più poveri, individualizzati per i più ricchi. 
Altro motivo della regressione sociale, politica e antropologica è la radicalizzazione della logica del mercato ad opera della globalizzazione. La stessa esistenza viene pensata sul valore d’uso che essa contiene, sulla falsariga della merce che va scambiata continuamente per generare transazioni a più livelli, là dove il branding sistematico di molti beni di consumo diviene il parametro per valutare rapporti, investimenti, qualità dei legami. Si è in presenza di una economia della schiavitù che si fonda sullo sfruttamento e sull’illegalità, sulla devastazione ambientale che prevede alcune quote distributive di libertà e giustizia che non devono intaccare gli interessi delle grandi lobby. La complessità della questione è sotto gli occhi di tutti, come mostra la drammatica realtà delle migrazioni e della crescita della povertà, che sempre più attestano la fallacia del sistema economico e culturale neoliberista. Ciò apre a una critica strutturale alla visione attuale delle politiche di mercato che connette produzione e consumo. 

3. Vivere la città: la vita come dono e la ricerca del bene comune

Lo scenario appena tratteggiato invoca un diverso rapporto tra cristianesimo e urbanizzazione. Mi sembrano prioritarie due scelte.
La prima sta nel riscoprire la vita come apertura, prossimità, dono. Ogni donna e uomo èsegnato strutturalmente dal bisogno, dal desiderio, dall’aspettativa di un domani differente. Nel codice del dono, prende corpo la verità dell’esistenza non secondo la logica dell’utilità o necessità, ma nel segno imprevedibile di una gratuità che scaturisce dalla libertà di farsi prossimo. La forza del dono e la sua sfida più grande consistono, dunque, nell’immettere il principio della reciprocità, della gratuità e del legame. Con una particolarità: che nel dono non c’è equilibrio, né simmetria, in quanto oltrepassa la legge del mercato e delinea lo stile della interdipendenza. Si tratta di vero e proprio capovolgimento, la lezione più difficile da accogliere: senza l’a/Altro, l’io semplicemente non sarebbe, né potrebbe esistere. È la scoperta che la presenza dell’a/Altro, percepita il più delle volte come scomoda e impertinente, offre l’opportunità di riaccostarsi ai tratti più alti e autentici dell’umano: l’apertura e l’ascolto, l’attenzione e la solidarietà, la cura e il rispetto, la capacità di operare una trasformazione della cultura della città.
La seconda sta nella costruzione della società entro una prospettiva di giustizia e solidarietà. La proposta cristiana non può non mettere in scena una capacità di umanizzare la democrazia cercando modelli economici e politici che generino vita nella società, facendosi carico degli ultimi, degli emarginati, delle vittime della violenza e della diseguaglianza. Sullo sfondo di un’economia di uguaglianza e di uno stretto legame tra ecologia e antropologia (cf. Laudato si’, n. 118-132), si può delineare una visione di corresponsabilità ambientale, economica e sociale che rivoluzioni il paradigma neoliberista in vista della ricerca del bene comune. Una cultura dell’ecologia integrale può provocare un contraccolpo sulle logiche di mercato, perché punta l’attenzione su un pensiero alternativo: quello che promuove il consumo critico, riscrive le regole del commercio internazionale, inizia a cooperative di comunità, rifiuta la crescente militarizzazione e produzione di armi, promuove energie rinnovabili, pone attenzione al lavoro come orizzonte di dignità e lotta alle disparità sociali.

Scrive C. M. Martini: “La città, allora, è sì il regno del rumore, dell’indifferenza, della frenesia; ma in essa sono possibili le sorprese, gli incontri imprevisti, a volte brevi, e tuttavia non insignificanti. Nel labirinto delle città, ci sono sentieri percorribili, un po’ nascosti, ma incoraggianti. La città può essere ancora luogo delle domande vere dell’esistenza, e lo richiamano i suoi simboli: la strada, la piazza dove può avvenire quel passa-parola che scuote e invita”.

Carmelo Dotolo, teologo, docente alla Pontificia Università Gregoriana e alla Pontificia Università Urbaniana