di Eugenio Borgna

La solitudine è stata la conseguenza del coronavirus che ci ha indotti ad interrompere  le nostre abituali relazioni sociali, e a  non uscire di casa, se non con grandi limitazioni. Non siamo stati liberi di fare le scelte che avremmo voluto, e, magari per la prima volta, abbiamo conosciuto la solitudine radicale che ci ha allontanato dai nostri quotidiani modelli di vita. Certo, se è stata intessuta di contenuti emozionali e relazionali, la solitudine ci ha portato a riflettere sul senso della vita, e ad essere fonte di raccoglimento, di riflessione, di silenzio interiore, di ascolto e di colloquio, di comunione e di preghiera, di attesa e di speranza, aiutandoci (anche) ad arginare la paura della malattia, e della morte. Ma come non pensare alle molte possibili incognite, che hanno accompagnato le settimane della nostra solitudine, inaridendone gli elementi positivi: l’età, le condizioni economiche, la presenza di malattie, le condizioni familiari e sociali, le condizioni ambientali, le paure diffuse e generalizzate, che non ci consentivano di vivere la solitudine, donandole un senso, e ci chiudevano in un isolamento, al quale è stato estraneo un senso. Se la speranza è rimasta viva in noi, ci sarà stato facile resistere al dolore della solitudine.

Eugenio Borgna, primario emerito di psichiatria dell’Ospedale Maggiore di Novara e libero docente in Clinica delle malattie nervose mentali presso l’Università di Milano. È uno degli esponenti italiani di punta della psichiatria fenomenologica.