di Paola Eletta Leoni

Camminano in fila, estenuati e senz’abiti, inseguendo una bandiera che gira velocissima su se stessa. In un tumulto assordante, innalzano “parole di dolore, accenti d’ira” e, stimolati da mosconi e vespe, grondano lacrime e sangue dei quali si nutrono le migliaia di vermi che immaginiamo sbucare da un terriccio umido e malsano per poi rientrarvi sazi e infelici. Così Dante ci presenta lo spazio senza nome, luogo di tormenti che non è ancora inferno, in cui abita gente “che par nel duol sì vinta”. L’immagine è possente e anticipa non solo l’uniformità vertiginosa di chi oggi vive nelle megalopoli, ma anche il movimento, carico di straziante attaccamento al passato, di chi abita in piccole cittadine, un tempo vivaci e tutte giocate all’aperto e ora rinchiuse dietro porte blindate, dalle quali, in appagata solitudine, si esce solo per metodiche e legali passeggiate. Megalopoli, città e villaggi dove ci si riunisce, ogni notte, per fuggire la noia, la quale, poi, ogni mattina, tornerà a bussare alla nostra porta, e noi saremo obbligati a lasciarla entrare, sconfitti, eppure incapaci d’accettare l’inevitabile sua vittoria. 
Per ogni dove, in piccole o grandi città, s’innalzano sempre più numerose, impellenti e velocissime, le bandiere cui andar dietro: ora ne scegliamo una, ora un’altra, secondo l’istinto, la pubblicità o la moda. E così, schiavi dell’inutile, camminiamo un po’ tutti a testa bassa (ma senza umiltà, come mi ricordava un amico) e, non sentendo davvero nostro il luogo in cui viviamo, ci sembra di non avere altra scelta che quella di sopportarlo, di odiarlo o di fuggirne. Ma in ciascuno di noi, e non importa se siamo brave persone o incalliti ingannatori, resta comunque vivo – fosse solo come un soffio leggero – il desiderio di riacquistare uno spazio che pensiamo ci sia stato rubato, non sappiamo da chi e perché. E così andiamo in cerca di luoghi incontaminati, ai quali chiediamo di acquietare la nostra ribellione, perché essa possa non esplodere mai in una rabbia selvaggia che ci induca a ucciderci o a uccidere.
Immersi come siamo in brulicanti alveari o in disseminate solitudini, sperduti e un po’ confusi a passeggio nei centellinati e fugaci spazi del non-senso, chi ci aiuterà a scoprire l’alta dignità, il senso e la gioia (sorella di una ridonata innocenza) del nostro essere uomini? Essere uomini non è facile, lo sappiamo bene. Ma ci viene in aiuto il nostro privilegio di pensare. Riflettere, senza affanno, su come usiamo di noi stessi (il nostro corpo, il tempo, i soldi, le capacità, la politica, la cultura, il rapporto con gli altri) ci aiuterà ad aprire gli occhi per riconoscere e quindi raccogliere la possibilità di una salutare rivoluzione del presente, e c’immetterà in uno spazio che sappia abbracciare il respiro persino del caos, facendoci ritrovare un tempo per essere e un ritmo d’esistere in compagnia di doveri, compiti e virtù davvero umani. Non è forse questo ciò che la nostra natura desidera? 
Secoli fa, alcuni abbandonarono le città e andarono a vivere nel deserto, per liberarsi così dal peso opprimente dell’obbedienza ai potenti dell’epoca. Altri, poi, ritenuti fuorilegge per aver commesso crimini contro la cìvitas, dileguandosi in quei luoghi invivibili, vollero sfuggire alla prigione e alla morte. E proprio da quei fuggitivi evasori, da quel connubio di santi e assassini che vissero insieme in deserti infruttuosi, nacque la nostra civiltà occidentale, carica di promesse, che ora sembra essere arrivata al suo capolinea. Ma, noi, oggi, non possiamo fare come loro, non possiamo fuggire “nei deserti”, fosse solo perché persino dei deserti i potenti hanno saputo appropriarsi. E il verdeggiante fuori-città in cui Boccaccio fece nascere le belle storie del Decamerone, o l’arcadica campagna rallegrata dai ruscelli, o l’impetuoso ululare dei venti selvaggi tanto amati dal romanticismo, o le dolci colline care alla letteratura del 900, anch’essi non esistono più. Il wifi, il cappuccino alla vaniglia e uno schermo in cui immergere il vuoto della mente ci accompagnano ovunque, alimentati dalle nostre lacrime e dal nostro sangue. E in questo modo anche le nostre città, via via, vanno sparendo, per lasciare il posto a un’infinita serie di periferie. 
La periferia, reale o simbolica, è là dove domina una solitudine priva di fascino, è là dove la città e la comunità di convivenza si dileguano e svaniscono. Ed è nella periferia che nasce ed esplode quella violenza che solo l’ingiustizia delle disuguaglianze sa provocare, una violenza che tanto scandalizza le persone per bene, e che pur tuttavia ha una sua ragione d’essere, benché sia greve e dolorosa, benché sia un cammino da non percorrere. E da quel nido di violenza, freddo e austero, non possiamo fuggire, perché ci è entrato dentro, ed è diventato un nemico che ormai abita nel cuore di ogni uomo, quindi anche nel mio, nel tuo, nel nostro cuore e forse anche in quello della persona che amo e che ammiro. È più ragionevole scegliere di guardarlo in faccia questo nido di violenza, per poi, senza paura o ingenua superstizione, domandare, fiduciosi, a quel Mistero che è sempre pronto a deporre, in ogni uomo, la sua speranza, che ce ne voglia liberare. Così, ogni mattina, non sarà la noia a bussare alla nostra porta, ma a farlo sarà una specie di spiritello arzillo e ragionevole che è capace di asciugare ogni nostra lacrima e di spingerci al sorriso.
Oggi il nostro compito è bello e semplice: è amare anche ciò che non vorremmo amare. Amare dunque anche la desolazione delle nostre umane periferie, che sono state edificate, narra Pasolini in Teorema, sul corpo di una religiosità ancestrale che si è nascosta sotto un terriccio umido e malsano: le periferie sono infatti edificate, lui racconta, sul docile assopirsi di una donna in odore di santità che si lascia sommergere dal peso del cemento nel quale vivranno, in spazi privi d’orizzonte, formicai di famiglie dedicate al lavoro e agli stenti. Ed è lì ch’ella s’immerge, quieta e fondante. E il miracolo avviene: la pietra che i costruttori vollero scartare è diventata, infatti, pietra angolare.
Alle periferie non occorrono urbanisti, diplomatici o pensatori che ne osservano la desolazione, per poi costruire utopie a tavolino, così pulite, così nette come i dipinti delle città ideali del Rinascimento (archiviate ad Urbino, a Baltimora o a Berlino), bellissime ma incontaminate dall’uomo. Non abbiamo forse imparato, in questo 2020, quanto sia indistruttibile la forza della contaminazione? Il nostro è il tempo in cui lasciarsi contagiare, per poter portare, insieme agli altri, la fragilità e l’incanto del nostro essere persone. 
Per riedificare le periferie e trasformarle in città, occorre che in esse abiti colui che scelga di deporvi il granello di senape della vicinanza. Temiamo forse, nel far questo, di perdere la nostra identità? Abbiamo forse paura di dare tutto, anche la vita, pur di stare vicino agli altri? Quando non è un assembramento goliardico e distraente, dove il pianto e il riso son menzogneri, ma è prossimità fraterna, carica di passione per il lavoro comune, incamminata verso una meta alta e dignitosa, la vicinanza è la linea-guida perché ogni periferia diventi città. Ce lo suggerisce, nella sua delicata fattura, l’immagine del nostro manifesto, dove l’aretino Spinello, figlio di Luca, ci descrive la fondazione della città di Alessandria, quella città che si formò abbracciando otto periferie alla confluenza tra il Tanaro e la Bormida nel Piemonte italiano. Il tempo in cui venne fondata la città di Alessandria non era certo un tempo pacifico: tra Alessandro III e la Lega Lombarda da una parte e il Marchesato di Monferrato e Federico Barbarossa dall’altro non correva buon sangue. Eppure, vediamo con quanta armonia quei muratori si dedicano a costruire la città: non alzano muri di difesa ma edificano mura d’accoglienza. E forse fu proprio questo ciò che donò loro la vittoria su una forza nemica che sembrava potentissima e invincibile. E il Vasari, aretino anche lui, esalta la sua città facendo onore al suo trecentesco pittore di cui dice: “Ha paragonato Giotto nel disegno ed avanzatolo di gran lunga nel colorito”. Certo, c’era, tanto nel critico come nel pittore, un grande amore alla città, un amore che vorremmo risorgesse nel cuore di ogni uomo, così che possano essere edificate quelle mura che sanno dare rifugio, protezione, vita e alimento a chiunque a esse si avvicini. 
Ci è stata tramandata (tràdita) così la costruzione dell’urbs (cioè della città), come luogo d’accoglienza e non come spazio d’esclusione. Il tradimento (tradìta) avviene quando inalziamo muri di difesa invece di edificare mura d’accoglienza. Coi muri crediamo di proteggere noi stessi e soprattutto il passato, ma non è così. Il passato ama trasformarsi in ciò che, prima o poi, diventerà anch’esso un passato, desideroso a sua volta di trasformarsi. Questa immensa libertà del movimento del passato dentro il movimento del presente è una libertà che non possiamo trovare se ci chiudiamo nelle nostre case, borghesi spettatori e giudici imperterriti della vita, del mondo e degli altri. 
E se talvolta ci sentiamo, come a me accade, persone d’altro tempo, grazie alla poesia di Poe possiamo riscoprire il coraggio del suo cavaliere errante, che non si arrese mai e che, benché vecchio e affaticato, continuò a domandare a chiunque incontrava dove potesse egli trovare la benedetta e desiderata terra dell’Eldorado. Dov’è il Paradiso che io, che tu, che noi aneliamo incontrare? Esso è qui, nel camminare e nel costruire insieme. E se questo comporta una certa fatica e il dolore del parto, potremo nel tempo scoprire che si tratta di una fatica e di un dolore che vengono amorevolmente presi per mano dalla gioia, una gioia che nessuno e niente potrà spegnere.