Angela Volpe, 7 agosto 2022

Il lavoro educativo è un lavoro nobile perché l’educatore è colui che sfiora il futuro

dal film buthanese: “Lunana. A yak in the classroom”

È un lavoro rischioso, perché, anche inconsapevolmente, ci può essere il pericolo di strumentalizzare i giovani per un proprio progetto ideologico, politico o economico.

Ed è un lavoro gratuito, perché lo scopo è quello di tirar fuori, dai giovani che mi sono stati affidati, quell’umanità che ci accomuna, che non ho fatto io, e non di immettere idee mie.

 E anche perché, a parte alcuni casi, non sapremo mai che frutti ha dato tutto quello che abbiamo fatto. Nel mio caso, in 32 anni, avrò insegnato almeno a 35.000 studenti e, a parte una ventina con i quali è cominciato un cammino di amicizia comune, non so che vita gli altri stiano conducendo.

Non sapremo mai se i semi seminati hanno dato frutto. Però ogni tanto, il Mistero o il Caso manda qualche piccolo regalo.

Stavo andando alla stazione della metro di Fujigaoka, per andare all’università, ovviamente con la mascherina, quando incontro una giovane donna con un bambino riccioluto. Lo guardo e gli sorrido, sempre con la mascherina. Allora la signora dice: “Scusi, ma lei è quella professoressa che insegnava “Culture internazionali” vent’anni fa al Seirei College?”. Io ovviamente non me la ricordavo, ma siamo state lì a parlare per 5 minuti. Mi ha detto così: “Sa, non dimentico mai quello che una volta lei ha detto, che tutto quello che non si condivide, marcisce. Si ricorda? L’episodio dei fichi”. L’episodio me lo ricordavo. Avevo detto questa frase di Helen Keller per spiegare che l’avidità distrugge la persona stessa, raccontando che una volta avevo portato da Agropoli alcuni pacchetti di fichi con il cioccolato, che sono una specialità del posto. Li avevo distribuiti agli amici ma due pacchetti me li ero tenuti per me: “Questi me li mangio io”. E sapete cosa è successo? Che non ce l’ho fatta a mangiarli tutti e una metà è marcita. La signora mi dice ancora: “Lo racconto ai miei figli, quando non vogliono dividere le cose”.

Sono episodi comunque rari.

In genere lavorare all’università in Giappone è molto faticoso (certo, non come le persone del Congo che scavano il coltan per le multinazionali…). Le università private, che sono la maggioranza, hanno dei costi molto alti e, quindi, gli studenti diventano una specie di “clienti”, che non bisogna scontentare. Per cui ci sono, oltre agli impegni delle lezioni (una lezione è di 100 minuti e i corsi durano fino al 22 luglio) e della ricerca, bisogna partecipare agli open campus, andare in giro nelle scuole per fare pubblicità, eccetera. Per non parlare della grande tensione dei corsi online di questi ultimi due anni e mezzo.

Allora uno potrebbe dire: “Ma scusa, chi te lo fa fare?”

Me lo fa fare un incontro con una persona, che si chiama Giovanni Riva, quando ero universitaria. Questa persona di forte umanità e di eccezionale intelligenza mi ha fatto intravedere la possibilità di vivere la mia vita con dignità, intelligenza e con un senso. Si impara per osmosi e, guardando a lui, ho deciso di cercare di fare, nei miei limiti e circostanze particolari, come faceva lui. E cioè studiare e insegnare per servire. Bella frase, che quando si tenta di metter in pratica, costa sacrificio. Ma, per fortuna, il termine sacrificio vuol dire “rendere la vita sacra”.

Allora, che cosa posso fare io per servire i miei studenti?

Prima di tutto, devo cercare di fare bene il mio lavoro, per esempio, aggiornando anche i programmi ai tempi e alle problematiche contemporanee.

Poi devo provocarli alla ricerca della verità, non solo per quanto riguarda le proprie discipline, ma per tutto lo studio in genere e nell’affronto della realtà.

Terzo, non come grado di importanza, ma terzo nell’economia del discorso, devo cercare di partire da un criterio, che non è quello religioso o culturale della mia esperienza, che pure comunque c’entra, ma da quella umanità comune, che la bibbia chiama cuore e Giovanni Riva esperienza elementare.

Quarto, cosa importantissima, una volta provocata la domanda, bisogna proporre un luogo dove l’umanità sia coltivata e accompagnata. Un luogo di amicizia, di compagnia (che è un’amicizia ideale e operativa), che ovviamente devo già vivere io nella mia circostanza di adulto.

Le persone che fanno parte di un gruppo così, già cominceranno a vivere tra loro (lasciandone la possibilità di parteciparne a tutti) questi rapporti nuovi in cui non si è amici perché si è i più intelligenti, i più belli, i più simpatici, ma gratuitamente, perché ci siamo incontrati e siamo persone come quelle che incontreremo durante tutta la vita e siamo già gli uni per gli altri

conferenza di Giovanni Riva, 11 dicembre 2000

Di questo luogo degli universitari, che noi chiamiamo The Others, per indicare proprio che non ci si salva da soli ma in compagnia con gli altri, che esiste in molti Paesi del mondo, e i cui esponenti sono anche in sala, vi parlerà Jenny.

Vi leggo adesso alcuni brani delle relazioni finali del corso di Antropologia religiosa di studenti del primo anno, che vengono da un curriculum scolastico che non dà loro alcuna conoscenza della filosofia o delle religioni in generale, anche quelle orientali. Il 90% non appartiene a nessun gruppo religioso.

Infatti una ragazza di 18 anni, viene dopo una lezione e mi chiede: “Scusi, chi è questo Gesù di cui parlava?”.

Studente 1

 È necessario avere un cuore semplice, un cuore che desidera la giustizia, che, per esempio, ci fa aiutare qualcuno se è a terra, non fa picchiare un bambino, o uccidere qualcuno. In questa società che sfrutta l’uomo e lo tratta come un oggetto, scoprire questo può salvare. Può salvare capire che non si vive di per sé, ma che c’è qualcuno che ci tiene in vita. Certamente si tratta di una consapevolezza sublime, di un’azione preziosa, difficili da descrivere a parole, ma che penso non sia solo un’idea cristiana, piuttosto che sia universale perché l’uomo possa vivere da essere umano.

Studente 2

Nel corso si è detto che, anziché essere superficialmente ottimisti, o cadere nel pessimismo, sarebbe meglio la terza strada, quella della speranza. Per me questo vuol dire che, anziché guardare in me e negli altri il 99% del negativo, devo cercare di vivere la vita tenendo presente quell’1% di positivo che c’è, segno dell’amore di Dio .

Studente 3 (commentando un dialogo tra Tommaso Moro e la figlia Margaret nel film “Un uomo per tutte le stagioni”:

Margaret: But in reason, haven’t you done as much as God can reasonably want?

More: finally isn’t a matter of reason, finally is a matter of love

Tommaso Moro rimase fedele a quell’amore che aveva ricevuto gratuitamente. In altre parole è un uomo che ha vissuto come Gesù. Ha dimostrato con la sua vita cosa sia la giustizia, rendendo visibile cosa sia l’amore verso Dio e l’amore da Dio.

Studente 4

More disse alla figlia che si trattava di un problema di amore. Il suo è un amore che non chiede il contraccambio, che continua a darsi senza appassire, ed è infinito. L’amore fa avvicinare l’uomo a quell’infinito che desidera dentro al suo cuore.

Studente 5 (Corso sulla Dignità umana)

Se uno comincia ad aiutare chi gli è a fianco, aiuta anche quelli che sono dall’altra parte della Terra. Possedere le cose in modo diverso, non solo i soldi, ma anche le capacità. Dipenderà da come uno cambia il suo modo di pensare. È necessario pensare non solo a se stessi ma anche agli altri e creare un ambiente umano in cui le persone possano dirsi a vicenda “aiutami” .  

Studente 6

Io mi sono sempre considerato una brava persona. Non butto la spazzatura per strada, non rubo. Però mi sono reso conto che la mia vita è totalmente indifferente verso gli altri. A pensarci bene, ho avuto la possibilità di aiutare gli altri e non l’ho mai fatto. Forse devo cambiare.

Studente 7

Quando sarò nel mondo del lavoro, voglio lavorare per il bene degli altri, non solo per fare soldi.

Studente 8

Non si può ignorare questa sete che si ha nel cuore. Voglio continuare a domandare e custodire il rapporto con chi mi ha suscitato la domanda. Facendo così potrò anch’io aiutare gli altri che hanno la stessa sete. Vivendo così si può essere molto più felici.

Jenny adesso vi racconterà come praticamente lei e i suoi amici costruiscono e custodiscono questo luogo di amicizia.