di Raniero La Valle

Il ruolo della città è di salvare e far vivere la democrazia. Come il ritirarsi dello Stato sociale conferisce ai Comuni nuovi compiti e nuove responsabilità di sostegno alla vita e ai bisogni degli appartenenti alla comunità cittadina, così i deficit di democrazia, che si producono sul piano sociale per effetto dei processi di globalizzazione e di avanzata dell’economia competitiva, possono essere arginati e compensati da una ripresa e da uno sviluppo della democrazia cittadina.
Nel villaggio globale, dove i poteri reali si allontanano dalle sedi della vita quotidiana e diventano sempre più anonimi e transnazionali, le città sono i luoghi dove i poteri possono essere di nuovo nominati, partecipati, condivisi, fatti propri dai cittadini; le città, dove la democrazia è nata, sono anche quelle dove essa ha l’estrema occasione per non morire, per non restare il ricordo di un’illusione. 
Certo, la città può adempiere a questo ruolo se essa stessa, pur feconda di imprese, non è ridotta a un’impresa. Se infatti si dovesse convenire che anche la città non è altro che un sistema di relazioni, di servizi a pagamento, di attività mercantili, che la polis non è politica, allora non vi sarebbero più città di rifugio, e la democrazia non avrebbe più un luogo in cui stare. In tal caso, basterebbe assumere parametri di redditività, trasformare gli organi rappresentativi in consigli di amministrazione, assimilare salute e qualità della vita a merce, sostituire gli amministratori con manager o capi d’impresa, e la questione sarebbe risolta. Ma se la città è una comunità di persone, se è una comunità politica, che ha fini generali e nella quale è in gioco la “buona vita” di tutti, e perfino la nuda vita di molti, allora la città ha ancora bisogno di un Sindaco, e non semplicemente di un Amministratore delegato, ha bisogno di rappresentanze politiche, e non solo di società, istituzioni e consorzi, ha bisogno di partecipazione e non semplicemente di un’erogazione di servizi, e la questione della democrazia ha ancora un senso.
Ciò comporta non solo conservare la democrazia che c’è, ma farla crescere, diffondere, arricchirla di nuove occasioni e di nuovi istituti.
Come narra San Gregorio Magno, nel secondo libro dei Dialoghi, San Benedetto, inviando alcuni monaci a fondare una nuova comunità a Talamone, consegnò loro, nello stesso tempo, la Regola e la pianta del monastero (ciò per cui Benedetto è considerato patrono degli architetti); come a dire che c’è un rapporto, una coerenza, tra cultura e insediamento, tra modo di vivere e modo di abitare, tra la carta della convivenza e la carta topografica. Sarebbe bello che la pianta di Roma, quella che va in mano a turisti, visitatori e pellegrini giubilari, fosse anche la pianta della democrazia a Roma, dei luoghi, anche fuori dai palazzi senatorii, dove la democrazia si esercita, si inventa e vive, dove, al contrario che nelle antiche carte, possa essere scritto: hic sunt cives. Appunto non la giungla, ma la città. Una città non solo vissuta, ma progettata dagli stessi cittadini. 
E allora questa, di un irradiarsi della democrazia, e non solo la logica dell’efficienza, dovrà essere la ragione ispiratrice dell’attribuzione di nuovi poteri e competenze alle Circoscrizioni, o dell’articolazione in Comuni della futura città metropolitana. E questa dovrà essere la ragione dell’impegno e della lotta (perché non si tratta di una scampagnata) per fare della città la città della “democrazia reale”, la città dei Patti e dei Consigli.

(Da “La democrazia a Roma” pubblicato in La pagina bianca, Fratelli Palombi Editori, Roma, 1997)

Raniero La Valle è un giornalista, politico ed intellettuale italiano, direttore de Il Popolo e nel 1961 del quotidiano L’Avvenire d’Italia, sul quale, giorno per giorno, aveva seguito i lavori del Concilio Vaticano II. Nel luglio 2008 è stato promotore e fondatore del movimento “Sinistra Cristiana – Laici per la Giustizia”, un servizio politico per la Costituzione, la laicità e la pace.