di Jean Tonglet

“Dai tempi più lontani cui risalgono i miei ricordi d’infanzia fino ad oggi, i più poveri mi sono apparsi come delle famiglie – in sostanza tutto un popolo – alle quali era vietato abitare il mondo degli altri; abitare la città, il paese, la terra. Come si poteva infatti definire “abitare” questo modo di ammassarsi, nascondersi, ripararsi con mezzi di fortuna, al margine del quartiere dove la mia stessa famiglia viveva in un tugurio? Popolazione relegata nella città bassa di Angers, in mansarde, in qualche locale sul cortile dove il sole non entrava mai, in uno stanzino senza finestre, in fondo a un corridoio, in uno scantinato non destinato ad abitazione.”.
Cosi, padre Joseph Wresinski, fondatore del Movimento Internazionale ATD Quarto Mondo, apriva il suo contributo alla riflessione fondamentale sui Diritti umani della Commissione nazionale consultative dei Diritti dell’Uomo, all’inizio del 88, poche settimane prima della sua morte.
Prosegue raccontando il suo arrivo, nel 56 al al campo dei senzatetto di Noisy-le-Grand, “terra fuori del mondo dove centinaia di famiglie abitavano in “igloo” di fibrocemento che altrove erano destinati ai maiali; e anche questo solo provvisoriamente, chi infatti poteva ammettere a lungo una “lebbra” del genere alle porte di Parigi? Qui di nuovo trovavo famiglie trattate come oggetto di provvedimenti, di aiuti e di controlli, più che come soggetti di diritti. Famiglie che avevano come sola identità una denominazione negativa: “asociali”, “disadattate”, “pesanti”, “famiglie con problemi”; la sola etichetta più o meno neutra di “senzatetto” era stata a poco a poco soppressa”.
Evocando la progressiva diramazione nel mondo del movimento ATD Quarto Mondo, ci parla poi delle “famiglie sul lastrico nelle grandi città dell’America del Nord, la loro identità familiare annullata per essere stipate, i bambini e le madri da un lato, i padri dall’altro, nei ricoveri del sistema di assistenza ..” Delle “famiglie dell’America latina che hanno lasciato la campagna e la fame per arroccarsi ai bordi di un precipizio vicino alla capitale. Nell’ambito di queste famiglie, le nascite e le morti non vengono registrate, perché non dovrebbero trovarsi in luoghi dove è vietato abitare. Quando la pioggia tropicale trascina una capanna nel precipizio, questo significa che dei bambini avranno vissuto e saranno morti senza mai essere esistiti per le amministrazioni, come non esistono nei registri e nelle statistiche nazionali e internazionali le famiglie stabilite su un terreno paludoso, ai bordi di una baia, in qualche località delle Antille. Esse vi si trovano illegalmente e, dopo il passaggio del bulldozer per spianare il terreno in vista di un’altra utilizzazione, nessuno avrà mai notizia delle centinaia di ricoveri, delle misere suppellettili ridotti in polvere. Nessuno saprà dove vanno errando, dove si nascondono queste famiglie ovunque indesiderate”.
Conclude cosi: “Più l’uomo è povero e più la sua misera abitazione sarà bassa, la sua capanna fragile, il suo sottoscala stretto ed umido, il suo tugurio in rovina, la sua casupola situata negli angoli più putridi di una “bidonville”, più lontana da qualsiasi acqua anche stagnante e contaminata. E più bisogna curvarsi per entrare, stringersi gli uni agli altri in uno stato di sovraffollamento che pregiudica ogni armonia di vita. La precarietà dell’ambiente genera infatti l’insicurezza nelle relazioni, nell’amicizia tra vicini, nell’amore tra gli sposi, tra genitori e figli. Nascono quindi il disordine e la violenza. Cosi le famiglie, a causa della miseria, diventano a poco a poco indesiderabili, ispirano ripugnanza e paura nell’ambiente che le circonda. Saranno cacciate quando non saranno loro stesse a fuggire.
Alla fine della storia dei più poveri  divenuti senzatetto, si trovano così i terreni abbandonati, i sottoboschi, le zone periferiche urbane temporaneamente inutilizzate, ma in cui c’è il rischio che domani arrivino i  bulldozer. Alla fine si trovano l’occupazione abusiva delle abitazioni e per i bambini, la notte, i banchi del mercato divengono un rifugio dopo una giornata passata a lottare per la sopravvivenza nelle strade, nei parcheggi o sulle spiagge delle metropoli.
La fine del cammino è soprattutto il passaggio da una identità già negativa a questa specie di non identità, di non esistenza amministrativa, a questa cancellazione da ogni registro, da ogni statistica. Degli esseri umani, delle famiglie appaiono allora solo come dei fantasmi: sono stati visti, ma non si sa più dove e quanti siano” 
Riflettendo all’Urbe, ci rendiamo conto ascoltando le voci dei più poveri, che quest’Urbe è stata tradita, non ha mantenuto le sue promesse. I più poveri ne sono i rivelatori, attrraverso la loro vita quotidiana, la loro esperienza, le loro lotte per esistere malgrado tutto.
L’Urbe tradita, la descrivava anche Charles Péguy nel suo essai intitolato “De Jean Coste” nei “Cahiers de la Quinzaine”, nel lontona 1902,  parlando del tradimento del patto o del contratto civile e  sociale:  «Una sola miseria è sufficiente  a condannare una società. Basta che un singolo uomo sia tenuto o consapevolmente lasciato nel bisogno perché l’intero contratto civile debba considerarsi nullo e invalido. Fino a quando resta fuori un uomo, la porta che è chiusa sulla sua faccia racchiude una città di ingiustizia e di odio».
All’opposto, l’Urbe tradita, fedele alla sua vocazione, non puo essere altro che una città di giustizia e di amore. Giustizia e amore, insieme. Senza amore, in effetti, i diritti rimangono lettere morte. E senza giustizia, senza diritti, l’amore diventa paternalismo, superiorità, mantenendo la gente povera nella dipendenza. Ne parleva ancora padre Joseph evocando la necessità di riconciliare la gisutizia e il cuore. Raccontava la storia di una madre dei Paesi Bassi: “Da bambina, da ragazzina, viveva con i suoi genitori su una chiatta. La gente della città ci disprezzava. Pensavano che non fossimo puliti e i miei compagni di classe non potevano venire a giocare a casa mia sulla chiatta. È stata questa ingiustizia del cuore che le ha fatto capire tutte le altre ingiustizie, quelle delle leggi. Questa madre capisce da dove viene questa ingiustizia nella gestione della sua città. I funzionari pubblici negli uffici del Municipio erano bambini quando era una bambina. E già a scuola si diceva loro che sulle chiatte vivevano persone che non erano pulite, bambini con cui non si doveva giocare. Da bambini, questi funzionari non hanno imparato questa giustizia nel loro cuore, che dice che ogni altro bambino è un fratello, un compagno. Quindi, oggi, come potrebbero avere giustizia nelle loro leggi?”
Per non tradire l’Urbe, bisogna riconciliare giustizia e amore: cosi, un giorno, attingeremo l’Eldorado, o, meglio la Città di Dio, della quale parlava Sant’Agostino.

Jean Tonglet, volontario permanente del Movimento Internazionale ATD (Agire Tutti per la Dignità) Quarto Mondo